sabato 28 gennaio 2012

ARABIA


    Dato che era un vicolo cieco, la North Richmond Street era tranquilla,
    eccetto che nell'ora in cui i Fratelli delle Scuole Cristiane,  finite
    le  lezioni,  lasciavano  uscire i ragazzi.  Una casa disabitata a due
    piani occupava il fondo cieco ed era separata dalle abitazioni  vicine
    da  un  quadrato  di  terreno.  Le altre case,  consapevoli della vita
    dignitosa che si viveva al loro interno,  si guardavano  l'un  l'altra
    con facce scure e imperturbabili.
    Il  precedente  inquilino della nostra casa,  un prete,  era morto nel
    salotto sul retro.  Un odore di  muffa  impregnava  tutte  le  stanze,
    rimaste chiuse per tanto tempo, e sul pavimento del ripostiglio dietro
    la  cucina erano sparpagliate vecchie carte inutili.  Tra queste avevo
    trovato alcuni libri:  "L'abate"  di  Walter  Scott,  "Il  comunicante
    devoto"  e  "Le  memorie  di  Vidocq".  Quest'ultimo in particolare mi
    attirava perchè aveva i  fogli  ingialliti.  Al  centro  del  giardino
    incolto,  posto dietro la casa, c'era un melo, e qua e là dei cespugli
    isolati,  sotto  uno  dei  quali  trovai  la  pompa  della  bicicletta
    dell'ultimo  inquilino,  tutta  arrugginita.  Era stato un prete molto
    caritatevole: nel testamento aveva lasciato  tutto  il  suo  denaro  a
    istituzioni pie e i mobili alla sorella.
    Nelle  brevi  giornate invernali faceva buio prima che avessimo finito
    di cenare, e, quando ci ritrovavamo nella strada, le case erano giù in
    ombra.  Lo squarcio di cielo sopra di noi era di  un  colore  violetto
    cangiante,  e  verso  di  esso  i  lampioni  alzavano  le  loro deboli
    lanterne.  L'aria fredda ci pungeva,  eppure  continuavamo  a  giocare
    finchè  ci  sentivamo  tutto  il  corpo  in  fiamme.  Le  nostre grida
    echeggiavano nella strada silenziosa,  e spesso  i  nostri  giochi  ci
    portavano per vicoli bui e fangosi dietro le case, dove ci scontravamo
    con la banda dei monellacci che abitavano nei villini, fino alle porte
    posteriori  dei  giardini  scuri  e pieni di umidità da cui emanava il
    lezzo degli immondezzai o alle scure stalle odorose, dove un cocchiere
    lisciava e spazzolava il suo cavallo o ne faceva tintinnare con  dolce
    suono  le  fibbie  dei  finimenti.  Quando tornavamo nella strada,  le
    finestre delle cucine  illuminate  avevano  giù  inondato  di  luce  i
    cortili.   Se  vedevamo  mio  zio  girare  l'angolo,  ci  nascondevamo
    nell'ombra finche non eravamo sicuri che fosse entrato in casa;  o  se
    la sorella di Mangan si affacciava alla porta per chiamare il fratello
    per  il  tè,  la osservavamo dal nostro nascondiglio guardare su e giù
    per la strada.  Stavamo a vedere se  restava  o  se  rientrava,  e  se
    rimaneva  ci  decidevamo  a  venir  fuori  e ci incamminavamo su per i
    gradini della casa di Mangan con aria rassegnata. Lei ci aspettava, la
    figura in risalto sullo  sfondo  di  luce  che  filtrava  dalla  porta
    semiaperta.  Suo  fratello  le  faceva  sempre  i  dispetti  prima  di
    obbedire, mentre io, appoggiato al cancello,  la stavo a guardare.  Il
    suo  abito  ondeggiava  a  ogni  movimento,  e  la morbida treccia dei
    capelli le oscillava da una parte e dall'altra.
    Ogni mattina mi sdraiavo sul pavimento del salotto d'ingresso e tenevo
    d'occhio la porta di casa sua.  Lasciavo le persiane abbassate fino  a
    pochi centimetri dal davanzale,  in modo che non mi si potesse vedere,
    e quando appariva sulla soglia il mio cuore faceva un  salto.  Correvo
    in anticamera, prendevo i libri e la seguivo. Non perdevo mai di vista
    la  sua  figuretta bruna e,  quando ci avvicinavamo al punto in cui le
    nostre strade si dividevano,  acceleravo il  passo  e  la  sorpassavo.
    Questo  succedeva  regolarmente  tutti  i  giorni.  Non  le  avevo mai
    parlato, se non per rivolgerle poche banali parole, eppure il suo nome
    era un richiamo per il mio sangue bollente.
    La sua  immagine  mi  accompagnava  anche  nei  posti  più  negati  al
    romanticismo.  Il sabato sera, quando la zia andava al mercato, dovevo
    andarci  anch'io  per  aiutarla  a  portare  un  po'   di   pacchetti.
    Camminavamo  per  le  strade  illuminate  tra  gli  spintoni di uomini
    ubriachi e di donne che contrattavano,  tra le bestemmie dei manovali,
    le  stridule  cantilene  dei  garzoni di guardia ai barili di carne di
    maiale in salamoia, la voce nasale dei cantastorie che intonavano inni
    su O'Donovan Rossa e ballate sui moti  patriottici.  Ma  tutti  questi
    rumori  convergevano in un'unica sensazione di vita per me: immaginavo
    di portare il mio calice in salvo attraverso una schiera di nemici. Il
    suo nome,  a volte,  mi saliva alle labbra in strane preghiere e  lodi
    che non capivo;  avevo spesso gli occhi pieni di lacrime (senza sapere
    perchè) e a volte l'ondata tumultuosa che si sprigionava dal mio cuore
    sembrava che mi si riversasse in petto.  Pensavo poco al  futuro.  Non
    sapevo se avrei mai trovato il coraggio di rivolgerle la parola e, nel
    caso  lo  avessi  fatto,  come  avrei potuto esprimerle la mia confusa
    adorazione.  Ma il mio corpo era come un'arpa e i gesti di lei come le
    dita che scorrono sulle corde.
    Una sera andai nel salotto sul retro,  dov'era morto il prete. Era una
    sera buia e piovosa, e il silenzio nella casa era assoluto. Attraverso
    un vetro rotto  sentivo  la  pioggia  battere  sul  terreno:  sottili,
    incessanti aghi di pioggia che si susseguivano,  quasi giocando, sulle
    aiuole impregnate d'acqua.  La luce di un lampione lontano  o  di  una
    finestra  illuminata  brillava  sotto  di  me;  ero contento che ci si
    potesse vedere tanto poco.  Tutti i miei sensi parevano desiderare  di
    nascondersi,  e,  sentendomi  sul punto di svenire,  premetti le palme
    delle mani una contro l'altra finchè tremarono,  mormorando più volte:
    "Amore! Amore!".
    Finalmente mi parlò. Quando mi rivolse le prime parole, mi sentii cosi
    confuso  da  non  sapere  cosa  rispondere.  Mi aveva chiesto se sarei
    andato all'Arabia.  Non ricordo se risposi sì o no.  Era uno splendido
    bazar; le sarebbe piaciuto andarci, disse.
    "E perchè non ci vai?" chiesi.
    Mentre parlava si rigirava un braccialetto d'argento intorno al polso.
    Non poteva andarci, rispose, perchè ci sarebbe stato un ritiro nel suo
    convento,  quella settimana.  Suo fratello e due altri ragazzi stavano
    cercando di portarsi via i berretti, e io ero solo vicino al cancello.
    Teneva con una mano una delle sbarre, mentre chinava la testa verso di
    me.  La luce del lampione di fronte si posava sulla candida curva  del
    suo  collo,  le  illuminava i capelli che le ricadevano immobili sulla
    nuca e, più in basso, cadeva sulla mano posata sulla sbarra.  Battendo
    di  lato sul vestito,  colpiva l'orlo bianco della sottana che la posa
    trascurata lasciava intravvedere.
    "Beato te che puoi andarci!" disse.
    "Be', se ci vado, ti porterò qualcosa" risposi.
    Quali innumerevoli follie mi turbarono la mente da quella sera in poi,
    sia  da  sveglio  che  dormendo!   Avrei  voluto   cancellare   quegli
    interminabili  giorni intermedi.  Trascurai lo studio.  Di notte nella
    mia camera da letto  e  di  giorno  in  classe,  la  sua  immagine  si
    frapponeva tra me e la pagina che mi sforzavo di leggere, e le sillabe
    della parola "Arabia" mi echeggiavano nel silenzio in cui la mia anima
    si  deliziava  di  rifugiarsi  e  gettavano  su  di  me un incantesimo
    orientale.  Alla fine chiesi il permesso di andare al bazar il  sabato
    sera.  La  zia fu sorpresa e si augurò che non si trattasse di qualche
    faccenda  di  frammassoni.   Risposi  male  in  classe,   quando   fui
    interrogato.  Vidi  il  volto dell'insegnante da amabile farsi severo:
    sperava che non diventassi negligente. Ma non ce la facevo a collegare
    i miei pensieri erranti.  Riuscivo appena,  con uno sforzo enorme,  ad
    applicarmi al serio lavoro della vita che,  ora che si interponeva tra
    me e il mio desiderio,  mi sembrava un gioco da ragazzi,  un brutto  e
    monotono gioco da ragazzi.
    Il  sabato  mattina ricordai allo zio che quella sera volevo andare al
    bazar.  Stava frugando vicino alla mensola in cerca della spazzola del
    cappello e mi rispose laconico:
    "Sì, sì, ragazzo mio, lo so."
    Poichè  c'era  lui  in  anticamera,  non  potevo  andare  nel  salotto
    d'ingresso e guardare fuori dalla finestra.  Sentii che a casa  tirava
    una  brutta  aria  e  perciò mi avviai lentamente verso la scuola.  Il
    vento mi sferzava senza pietà,  e il mio cuore era giù pieno di tristi
    presagi.
    Quando tornai a casa per pranzo,  lo zio non era ancora arrivato.  Era
    troppo presto. Mi sedetti e mi misi a fissare l'orologio per un po' e,
    quando il suo tictac cominciò a irritarmi, lasciai la stanza.
    Salii le scale e raggiunsi il piano superiore. Le alte, fredde, vuote,
    tetre stanze mi fecero passare il malumore,  e me  ne  andai  dall'una
    all'altra cantando.  Dalla finestra sul davanti vedevo i miei compagni
    giocare giù nella strada.  Le loro grida mi arrivavano  affievolite  e
    indistinte,  e,  con la fronte appoggiata al vetro freddo, guardavo la
    casa buia dove viveva lei.  Penso di essere  rimasto  là  per  un'ora,
    senza  vedere  nient'altro che la figuretta vestita di scuro rievocata
    dalla mia immaginazione,  con la luce del  lampione  che  batteva  con
    discrezione  sul  collo  sinuoso,  sulla mano appoggiata alla sbarra e
    sull'orlo della sottana.
    Ritornando dabbasso trovai la signora Mercer seduta accanto al  fuoco.
    Era  una  vecchia  petulante,  vedova di uno strozzino,  e raccoglieva
    francobolli usati per beneficienza. Durante il tè dovetti sopportare i
    soliti pettegolezzi.  Il pasto continuò per oltre un'ora,  e ancora lo
    zio  non  ritornava.  La  signora  Mercer  si  alzò per andarsene: era
    spiacente di non poter aspettare di più,  ma erano le otto passate,  e
    non  voleva  trovarsi  fuori  tanto  tardi perchè l'aria della sera le
    faceva male. Quando se ne fu andata,  mi misi a camminare su e giù per
    la stanza, stringendo i pugni. La zia mi disse:
    "Temo che dovrai rinunciare al bazar per questa sera."
    Alle nove sentii la chiave dello zio girare nella serratura. Lo sentii
    parlare  da  solo e avvertii l'oscillazione dell'attaccapanni sotto il
    peso del suo soprabito: tutti segni chiari per me.  Quando fu  a  metà
    della  sua  cena,  gli  chiesi i soldi per andare al bazar.  Se ne era
    dimenticato.
    "A quest'ora la gente dorme, e del primo sonno," dichiarò.
    Non sorrisi e la zia intervenne energica:
    "Non puoi darglieli questi  soldi  e  lasciarlo  andare?  Lo  hai  giù
    trattenuto abbastanza, tardi com'è!"
    Lo  zio  si disse dispiaciuto della dimenticanza.  Credeva nel vecchio
    proverbio secondo il quale a passar la vita a lavorare e basta  ci  si
    fossilizza; un po' di svago ci vuole! Mi chiese dove avessi intenzione
    di  andare  e,  quando glielo ripetei una seconda volta,  mi chiese se
    conoscevo "L'addio dell'arabo al suo  destriero".  Quando  lasciai  la
    cucina stava recitando i primi versi alla zia.
    Tenendo  stretto  un fiorino nella mano,  mi incamminai a grandi passi
    per Buckingham Street verso la stazione.
    La vista delle  strade,  affollate  di  compratori  e  illuminate  dai
    lampioni  a  gas,  mi  fece tornare in mente lo scopo del mio viaggio.
    Presi posto in un vagone di terza classe,  in un treno  deserto.  Dopo
    un'intollerabile  attesa  il treno si mosse lentamente dalla stazione.
    Avanzava strisciando tra case in rovina e sopra il fiume scintillante.
    A Westland Row una folla premette contro le portiere, ma i facchini la
    respinsero indietro dicendo che era un treno speciale  per  il  bazar.
    Rimasi solo nello scompartimento vuoto.  Pochi minuti dopo il treno si
    accostava a una  piattaforma  di  legno  improvvisata.  Uscendo  sulla
    strada, vidi sul quadrante luminoso di un orologio che mancavano dieci
    minuti  alle  dieci.  Di  fronte a me si ergeva un grande edificio che
    mostrava il magico nome.
    Non riuscii a trovare l'ingresso da sei pence e,  temendo che stessero
    per  chiudere,  mi  infilai velocemente in un'entrata girevole e diedi
    uno scellino a un uomo  dall'aria  stanca.  Mi  trovai  in  un  salone
    circondato  a  metà altezza da una galleria.  Quasi tutti i padiglioni
    erano chiusi,  e buona parte del  salone  era  immersa  nell'oscurità.
    C'era lo stesso silenzio, notai, che riempie una chiesa dopo la Messa.
    Avanzai  verso  il  centro del bazar timidamente.  Poche persone erano
    raccolte attorno ai padiglioni ancora aperti.  Davanti  a  una  tenda,
    sulla  quale  erano  scritte  con  lampadine  colorate le parole "CafŠ
    Chantant",  due uomini stavano contando  del  denaro  su  un  vassoio.
    Ascoltai il suono delle monete che cadevano.
    Ricordando a fatica perchè ero venuto, mi avvicinai a uno dei banchi e
    mi misi a guardare dei vasi di porcellana e dei servizi da tŠ a fiori.
    Sulla soglia del padiglione una ragazza chiacchierava e rideva con due
    giovanotti.   Mi   colpì   il   loro   accento  inglese,   e  ascoltai
    distrattamente la conversazione.
    "Non ho mai detto una cosa del genere!"
    "Ma sò che lo avete detto."
    "Non Š vero!"
    "Non l'ha detto forse?"
    "Sò. L'ho sentito io."
    "Macchè! E' una bugia."
    Scorgendomi la signorina venne verso di me e mi chiese  se  desideravo
    comprare  qualcosa.  Il  tono  della  sua  voce non era incoraggiante:
    sembrava che mi avesse rivolto la parola solo per un senso di  dovere.
    Guardai  umilmente  i  grandi vasi sistemati come guardie orientali ai
    due lati dell'entrata buia e mormorai:
    "No, grazie."
    La signorina cambiò di posto a un vasetto e ritornò ai due giovanotti.
    Ripresero lo stesso argomento.  Una volta o due la  ragazza  mi  diede
    un'occhiata da sopra la spalla.
    Indugiai  davanti  al  suo  banco,  perfettamente  consapevole che era
    inutile rimanere là, ma volevo far sembrare più reale il mio interesse
    per gli oggetti esposti.  Poi mi girai e mi incamminai verso il centro
    del salone. Feci scivolare in tasca le due monetine da un penny vicino
    a  quella  da  sei  pence.  Sentii  una  voce dal fondo della galleria
    gridare che non c'era più luce.  La parte superiore della sala era ora
    completamente al buio.
    Alzando lo sguardo nell'oscurità, mi vidi come una creatura trascinata
    e derisa dalla vanità, e gli occhi mi bruciarono di angoscia e d'ira.

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