martedì 7 febbraio 2012

GRAZIA


Due signori che in quel momento erano nel gabinetto
cercarono di rialzarlo: ma era proprio malridotto. Giaceva
raggomitolato ai piedi delle scale da cui era caduto.
Riuscirono a voltarlo. Il cappello era rotolato lontano
qualche metro e i vestiti erano imbrattati del sudiciume e
della melma del pavimento su cui era rimasto disteso, a
faccia in giù. Gli occhi erano chiusi e respirava con un
grugnito. Un sottile rivolo di sangue gli colava
dall'angolo della bocca.
I due signori e uno dei baristi lo portarono su per le scale
e lo stesero di nuovo sul pavimento del bar. Dopo due
minuti era attorniato da un cerchio di uomini. Il gestore
del bar chiese a tutti chi era e chi era con lui. Nessuno
sapeva chi era, ma uno dei baristi disse che aveva servito
al signore un piccolo rum.
«Era solo?» chiese il gestore.
«Nossignore. C'erano due signori con lui.»
«E dove sono?»
Nessuno lo sapeva, una voce disse:
«Fategli aria. È svenuto».
Il cerchio di spettatori si dilatò e tornò a chiudersi
elastico. Sul pavimento tassellato vicino alla testa
dell'uomo si era formata una medaglia scura di sangue. Il
gestore, spaventato dal pallore grigio sul viso dell'uomo,
mandò a chiamare un poliziotto.
Gli venne slacciato il colletto e disfatta la cravatta. Aprì
gli occhi un istante, sospirò e li richiuse. Uno dei signori
che l'aveva portato su per le scale teneva in mano un

cappello di seta tutto sporco. Il gestore chiese
ripetutamente se nessuno sapeva chi fosse il ferito o dove
erano andati i suoi amici. La porta del bar si aprì ed entrò
un immenso poliziotto. Una folla che l'aveva seguito
lungo il vicolo si riunì fuori della porta, sforzandosi di
guardare dentro attraverso i vetri.
Il gestore cominciò immediatamente a narrare quanto
sapeva. Il poliziotto, un giovane dai tratti grossolani e
immobili, ascoltava. Mosse la testa lentamente da destra e
sinistra e dal gestore alla persona sul pavimento, come se
temesse di essere vittima di qualche inganno. Poi si sfilò
il guanto, estrasse un libretto dalla cintola, leccò la grafite
della matita e si preparò a redigere. Chiese con sospettoso
accento provinciale:
«Chi è l'uomo? Qual è il suo nome? e l'indirizzo?».
Un giovane vestito da ciclista si fece strada fra il cerchio
di astanti. Si inginocchiò rapido accanto al ferito e
domandò dell'acqua. Il poliziotto si inginocchiò pure lui
per aiutare. Il giovane lavò via il sangue dalla bocca del
ferito e poi domandò un po' di brandy. Il poliziotto ripeté
l'ordine con voce autoritaria finché arrivò correndo un
barista con il bicchiere. Il brandy venne cacciato a forza
in gola all'uomo. Dopo pochi secondi questi aprì gli occhi
e si guardò intorno. Guardò il cerchio di facce e poi,
comprendendo, si sforzò di alzarsi in piedi.
«Sta bene adesso?» chiese il giovane vestito da ciclista.
«Sceria, 'n'è niente» disse il ferito, cercando di rizzarsi.
Venne aiutato a mettersi in piedi. Il gestore disse
qualcosa di un ospedale e una parte degli astanti dette
consigli. Il cappello di seta ammaccato venne messo sulla
testa dell'uomo. Il poliziotto chiese:
«Dove abita?».
L'uomo, senza rispondere, cominciò ad attorcigliarsi le
punte dei baffi. Non dava importanza al suo incidente.
Non era nulla, disse: solo un piccolo incidente. Parlava
con voce molto indistinta.
«Dove abita?» ripeté il poliziotto.
L'uomo disse che dovevano trovargli una vettura. Mentre
veniva dibattuta la questione un signore alto e agile dalla
carnagione chiara, che indossava un lungo ulster giallo,
arrivò dall'estremità opposta del bar.
Vedendo lo spettacolo, gridò:
«Ehi, Tom, ciao! Cosa c'è che non va?».
«Sceria, n'è niente» disse l'uomo.
Il nuovo venuto esaminò la deplorabile figura davanti a
lui, poi si volse al poliziotto, dicendo:
«Va bene, agente. Lo accompagnerò io a casa». Il

poliziotto si toccò l'elmetto e rispose: «Va bene, signor

Power!».
«Avanti vieni, Tom» disse il signor Power, prendendo
l'amico per il braccio. «Nessun osso rotto. Eh? Ce la fai a
camminare?»
Il giovane vestito da ciclista prese l'uomo per l'altro
braccio e la folla si divise.
«Come hai fatto a ridurti in questo stato?» chiese il signor
Power.
«Il signore è caduto dalle scale» disse il giovane.
«Le 'ono 'olto 'ato, 'ignore» disse il ferito.
«Ma di nulla.»
«'on 'ossiamo 'ere un 'iccolo...?»
«Non ora. Non ora.»
I tre uomini lasciarono il bar e la folla filtrò nel vicolo
attraverso le porte. Il gestore portò il poliziotto alle scale
per ispezionare il luogo dell'incidente. Convennero che il
signore doveva avere messo un piede in fallo. I clienti
tornarono al bancone e un barista si mise a togliere le
tracce di sangue dal pavimento.
Quando sboccarono in via Grafton, il signor Power
chiamò con un fischio una carrozzella a due posti. Il
ferito ripeté quanto meglio poteva:
«'e 'ono 'olto 'ato, signore. Spero di 'incontrarla. 'i 'iamo
Kernan». Lo choc e l'incipiente dolore gli avevano fatto
in parte smaltire la sbornia.
«Non c'è di che» disse il giovane.
Si strinsero la mano. Il signor Kernan venne issato sulla
vettura e, mentre il signor Power dava le indicazioni al
vetturino, espresse tutta la sua gratitudine al giovane e si
rammaricò di non potere bere qualcosetta con lui.
«Un'altra volta» disse il giovane.
La vettura si allontanò in direzione di via Westmoreland.
Mentre passava davanti al Ballast Office l'orologio
segnava le nove e mezzo. Li colpì un gelido vento di
ponente, che soffiava dalla foce del fiume. Il signor
Kernan era tutto raggomitolato dal freddo. L'amico gli
chiese di raccontargli come era avvenuto l'incidente.
«'on 'osso 'arlare» rispose «'i 'ono 'atto male alla 'ingua.»
«Fai vedere.»
L'altro si sporse sopra la ruota della vettura e scrutò
dentro la bocca del signor Kernan ma non riuscì a vedere.
Accese un fiammifero e, riparandolo nell'incavo delle
mani, scrutò di nuovo nella bocca che il signor Kernan
aprì ubbidiente. L'oscillare della vettura portava il fiammifero
avanti e indietro dalla bocca aperta. I denti
inferiori e le gengive erano coperti di grumi di sangue e
un minuscolo pezzo di lingua sembrava staccato con un
morso. Il fiammifero venne spento.
«Brutta cosa» disse il signor Power.
«Sceria, 'n'è niente» disse il signor Kernan, chiudendo la
bocca e tirandosi su il bavero del mantello sporco intorno
al collo.
Il signor Kernan era un viaggiatore di commercio della
vecchia scuola che credeva nella dignità della sua
professione. Non era mai stato visto nella city senza un
cappello di seta abbastanza decoroso e un paio di ghette.
In grazia di questi due articoli di abbigliamento, diceva,
un uomo poteva sempre essere all'altezza delle
circostanze. Continuava la tradizione del suo Napoleone,
il grande Blackwhite, il cui ricordo evocava a volte con
racconti e imitazioni. I metodi commerciali moderni
l'avevano risparmiato solo quel tanto da permettergli un
piccolo uscio a via Crowe, sulla tenda della cui vetrina
era scritto il nome della ditta con l'indirizzo - Londra, E
C. Sulla mensola del caminetto del piccolo ufficio era
allineato un piccolo battaglione di pesanti scatole di
metallo bianco e sul tavolo davanti alla vetrina stavano
quattro o cinque vasi di porcellana di solito mezzi pieni di
un liquido nero. Da questi vasi il signor Kernan
assaggiava il tè. Se ne riempiva la bocca, lo risucchiava,
se ne saturava il palato sputandolo poi nel caminetto. Poi
indugiava a giudicare.
Il signor Power, uomo molto più giovane, era impiegato
nel reale ufficio irlandese di polizia al Castello di

Dublino. L'arco della sua ascesa sociale intersecava l'arco
della decadenza dell'amico, ma la decadenza del signor
Kernan era mitigata dal fatto che alcuni degli amici che
l'avevano conosciuto all'apice del successo lo
consideravano ancora un personaggio. Il signor Power era
uno di questi amici. Nella sua cerchia erano proverbiali i
suoi inspiegabili debiti; era un giovane allegro.
La vettura si fermò di fronte a una casetta in via
Glasvenin e il signor Kernan venne aiutato a entrare in
casa. La moglie lo mise a letto, mentre il signor Power
sedeva in cucina al piano terra chiedendo ai bambini dove
andavano a scuola e che libro stessero studiando. I
bambini, due ragazzine e un ragazzino, consci della
debolezza paterna e dell'assenza materna, cominciarono a
scatenarsi. Si stupì sia della maleducazione sia
dell'accento e la fronte gli si fece pensosa. Dopo un po' la
signora Kernan entrò in cucina, esclamando:
«Che spettacolo! Ah, un giorno o 1'altro si ammazzerà e
amen. Beve da venerdì».
Il signor Power le spiegò prudentemente che non aveva
nessuna responsabilità, che era arrivato sulla scena per
puro caso. La signora Kernan, ricordando i buoni uffici
del signor Power durante i litigi domestici, oltre a molti
prestiti, piccoli ma opportuni, disse:
«Oh, non ha bisogno di dirmelo, signor Power. So che è
un suo amico, non come certi altri. Son cari e buoni
finché ha soldi in tasca da stare alla larga da moglie e
famiglia. Begli amici! Con chi era stasera, vorrei
sapere?».
Il signor Power scosse la testa ma non disse niente.
«Mi dispiace tanto» continuò lei «che non ho niente in
casa da offrirle. Ma se aspetta un minuto mando qualcuno
da Fogarty, all'angolo.»
Il signor Power si alzò.
«Lo aspettavamo di ritorno a casa con i soldi. Sembra che
non pensi mai di averla una casa.»
«Su, su, signora Kernan» disse il signor Power «gli
faremo cambiare vita. Parlerò a Martin. È lui il nostro
uomo. Verremo una di queste sere a parlarne.»
Lo accompagnò alla porta. Il vetturino andava avanti e
indietro sul marciapiede battendo i piedi e facendo
oscillare le braccia per riscaldarsi.
«Molto gentile da parte sua di portarlo a casa» disse.
«Non c'è di che» disse il signor Power.
Salì sulla carrozzella. Mentre si allontanava la salutò
levandosi il cappello allegramente.
«Ne faremo un altro uomo» disse. «Buona notte, signora
Kernan.»
Gli occhi perplessi della signora Kernan seguirono la
vettura finché scomparve. Allora li distolse, entrò in casa
e vuotò le tasche del marito.
Era una donna di mezz'età, attiva e pratica. Non molto
tempo prima aveva festeggiato le nozze d'argento e
rinnovato l'intimità con il marito ballando con lui un
valzer suonato dal signor Power. Ai tempi in cui le faceva
la corte, il signor Kernan le era sembrato una figura
abbastanza attraente: e ogni volta che veniva annunciato
un matrimonio si affrettava ancora adesso alla porta della
chiesa e, vedendo la coppia nuziale, ricordava con vivo
piacere come era uscita dalla chiesa della Stella Maris a
Sandymount, appoggiandosi al braccio di un uomo

gioviale e ben pasciuto, che era vestito con eleganza in
redingote e pantaloni lavanda e teneva con grazia un
cappello di seta in equilibrio sull'altro braccio. Dopo tre
settimane aveva trovato la vita di moglie noiosa e, più
tardi, quando stava cominciando a trovarla
insopportabile, era diventata madre. La parte di madre
non presentava per lei difficoltà insuperabili e durante
venticinque anni aveva mandato avanti accortamente la
casa per il marito. I due figli maggiori erano varati. Uno
lavorava in un negozio di tessuti a Glasgow e l'altro era
impiegato di un mercante di tè a Belfast. Erano buoni
figli, scrivevano regolarmente e talvolta mandavano soldi
a casa. Gli altri bambini erano ancora a scuola.
Il giorno dopo il signor Kernan mandò una lettera
all'ufficio e rimase a letto. Gli fece del brodo e lo sgridò
energicamente. Accettava le sue frequenti intemperanze
come parte del clima, lo curava doverosamente quando
stava male e cercava sempre di fargli mangiare la prima
colazione. C'erano mariti peggiori. Da quando i ragazzi
erano cresciuti non era più stato violento, e sapeva che si
sarebbe fatto a piedi nei due sensi tutta via Thomas per
prendere anche una piccola ordinazione.
Due sere dopo, gli amici vennero a trovarlo. Li portò su
alla stanza da letto, la cui aria era impregnata di un odore
personale, e dette loro sedie accanto al fuoco. La lingua
del signor Kernan, che ogni tanto con le sue fitte dolorose
l'aveva reso piuttosto irritabile durante il giorno, divenne
più educata. Sedeva nel letto sostenuto da cuscini e quel
po' di colore che aveva sulle guance gonfie le faceva
assomigliare a braci accese. Si scusò con gli ospiti per il
disordine della stanza, ma nello stesso tempo li guardò
con un po' di superbia, con l'orgoglio di un veterano.
Era del tutto inconsapevole di essere la vittima di un
complotto che gli amici, il signor Cunningham, il signor
M'Coy e il signor Power, avevano rivelato alla signora
Kernan in salotto. L'idea era stata del signor Power, ma
l'attuazione era affidata al signor Cunningham. Il signor
Kernan era di ceppo protestante e, sebbene si fosse
convertito alla fede cattolica al tempo del suo
matrimonio, per venti anni era stato un ben pallido
sostenitore della Chiesa. Gli piaceva, inoltre, lanciare
velate frecciatine al cattolicesimo.
Il signor Cunningham era proprio l'uomo che ci voleva
per un caso del genere. Era un collega anziano del signor
Power. La sua vita familiare non era molto felice. La
gente lo compativa molto, perché era risaputo che aveva
sposato una donna impresentabile, un'incurabile
ubriacona. Le aveva messo su casa sei volte; e ogni volta
lei gli aveva impegnato i mobili.
Tutti stimavano il povero Martin Cunningham. Era un
uomo pieno di buon senso, autorevole e intelligente. La
sua conoscenza dell'uomo, frutto di una sagacia naturale
resa più particolareggiata dalla lunga consuetudine con i
casi nei tribunali di polizia, era una lama temprata da
brevi immersioni nelle acque della filosofia generale.
Aveva una buona cultura. Gli amici si inchinavano ai suoi
giudizi e ritenevano che il suo viso assomigliasse a quello
di Shakespeare.
Quando le era stato rivelato il complotto, la signora
Kernan aveva detto:
«Lascio tutto nelle sue mani, signor Cunningham».
Dopo un quarto di secolo di vita matrimoniale, le erano

rimaste ben poche illusioni. La religione era per lei
un'abitudine, e sospettava che un uomo dell'età di suo
marito non sarebbe cambiato molto prima di morire. Era
tentata di trovare l'incidente singolarmente appropriato e,
se non fosse stato che non desiderava sembrare crudele,
avrebbe detto ai signori che la lingua del signor Keman
non avrebbe sofferto dell'accorciamento. Comunque, il
signor Cunningham era un uomo capace; e la religione
era la religione. Il progetto poteva fargli bene e,
perlomeno, male non poteva fargli. Le sue credenze non
erano stravaganti. Credeva fermamente nel Sacro Cuore
come la più comunemente utile fra tutte le devozioni
cattoliche e approvava i sacramenti. La sua fede era
confinata alla cucina ma se vi era costretta, poteva anche
credere nel banshee e nello Spirito Santo.
I signori cominciarono a parlare dell'incidente. II signor
Cunningham disse che una volta aveva saputo di un caso
simile. Un uomo di settanta anni si era tolto con un morso
un pezzo di lingua durante un attacco epilettico e la
lingua si era riformata, tanto che non si poteva vedere
traccia del morso.
«Be', non ho settant'anni» disse l'infermo.
«Dio ce ne guardi» disse il signor Cunningham.
«Non ti fa male adesso?» chiese il signor M'Coy.
Il signor M'Coy era stato un tempo tenore di una certa
fama. La moglie, che era stata soprano, insegnava ancora
ai bambini il pianoforte a prezzi modici. La linea della
sua vita non era stata la distanza più breve fra due punti e

per brevi periodi era stato costretto a vivere di espedienti.
Era stato impiegato delle Ferrovie del Midland, piazzista
di annunci pubblicitari per l'Irish Times e il Freeman's
Journal, commesso viaggiatore per una ditta di carbone,
investigatore privato, impiegato nell'ufficio del vicesceriffo,
e di recente era diventato segretario del coroner
municipale. La sua nuova mansione lo rendeva
interessato professionalmente al caso del signor Keman.
«Male? non tanto» rispose il signor Kernan. «Ma è così
nauseante. Mi sento una gran voglia di vomitare.»
«È la sbornia» disse il signor Cunningham con fermezza.
«No» disse il signor Kernan. «Credo che ho preso freddo
in carrozzella. C'è qualcosa che continua a venirmi in
gola, flemma o...»
«Muco» disse il signor M'Coy.
«Continua a venirmi in gola come da giù; nauseante.»
«Sì, sì» disse il signor M'Coy «è il torace.»
Guardò contemporaneamente il signor Cunningham e il
signor Power con aria di sfida. Il signor Cunningham
annuì rapido con la testa e il signor Power disse:
«Ah bene, tutto è bene quel che finisce bene».
«Ti sono molto grato, caro amico» disse l'infermo. Il
signor Power si schermì con un gesto della mano.
«Quegli altri due con cui stavo...»
«Con chi stavi?» chiese il signor Cunningham.
«Un tipo. Non so come si chiama. Maledizione, come si
chiama? Un tipetto con i capelli chiari...»
«E chi altro?»
«Harford. »
«Mm» disse il signor Cunningham.
A questo commento del signor Cunningham la gente

taceva. Si sapeva che chi parlava aveva fonti segrete di
informazione. In questo caso il monosillabo aveva
un'intenzione morale. Il signor Harford talvolta faceva
parte di un piccolo distaccamento che la domenica
lasciava il centro poco dopo mezzogiorno allo scopo di
arrivare il più presto possibile in qualche bar nei
sobborghi della città dove i membri di esso si
qualificavano debitamente come semplici viaggiatori. Ma
i compagni di viaggio non avevano mai acconsentito a
chiudere gli occhi sulle sue origini. Aveva cominciato
nella vita come oscuro finanziere prestando agli operai
piccole somme di denaro a interesse usurario. Più tardi
era diventato socio di un signore molto grasso e basso, il
signor Goldberg, nell'istituto di prestiti su pegno del
Liffey. Sebbene avesse abbracciato soltanto il codice
etico ebreo, gli altri cattolici, ogni volta che avevano
sofferto di persona o per procura delle sue esazioni,
parlavano di lui amaramente come di un ebreo irlandese e
di un analfabeta, e vedevano la divina disapprovazione
dell'usura manifestarsi nella persona del figlio idiota.
Altre volte ne ricordavano i lati buoni.
«Mi domando dove è andato a finire» disse il signor
Kernan.
Desiderava che i particolari dell'incidente rimanessero nel
vago. Desiderava che gli amici pensassero che c'era stato
qualche sbaglio, che il signor Harford e lui si fossero
persi di vista. Gli amici, che conoscevano benissimo le
abitudini del signor Harford quando beveva, tacquero. Il
signor Power ripeté:
«Tutto è bene quel che finisce bene».
Il signor Kernan cambiò subito argomento.
«Bravo giovane quello studente di medicina» disse. «Se
non fosse stato per lui...»
«Ah, se non fosse stato per lui» disse il signor Power
«potevano essere sette giorni, senza l'opzione di una
multa.»
«Sì, sì» disse il signor Kernan, cercando di ricordare. «Mi
ricordo adesso che c'era un poliziotto. Sembrava un bravo
giovane. Ma com'è successo?»
« È successo che eri ubriaco, Tom» disse il signor
Cunningham gravemente.
«È vero» disse il signor Kernan, con la stessa gravità.
«Immagino che ti sei messo d'accordo con l'agente, Jack»
disse il signor M'Coy.
Il signor Power non apprezzava l'uso del suo nome di
battesimo. Non era un rigido moralista, ma non poteva
dimenticare che il signor M'Coy aveva di recente
intrapreso una crociata in cerca di valige e bauli per
permettere alla signora M'Coy di mantenere impegni
immaginari in provincia. Più che risentirsi del fatto che
era stato vittimizzato, si risentiva del modo volgare con
cui l'avevano giocato. Rispose alla domanda quindi, come
se l'avesse posta il signor Kernan.
Il resoconto indignò il signor Kernan. Era acutamente
conscio dei suoi diritti di cittadino, desiderava vivere con
la sua città in rapporti di reciproca stima e si risentiva di
qualsiasi affronto perpetratogli da quelli che chiamava
zoticoni di campagna.
«È per questo che paghiamo le tasse?» chiese. «Per
nutrire e vestire questi villani ignoranti... che non sono
altro.»
Il signor Cunningham rise. Era un funzionario del

Castello solo durante le ore d'ufficio.

«Come potrebbero essere altrimenti, Tom?» disse.
Prese un forte accento provinciale e disse in tono di
comando:
«65, acchiappa il cavolo! ».
Tutti risero. Il signor M'Coy, che voleva intromettersi
nella conversazione in qualsiasi modo, finse di non avere
mai sentito la storia. Il signor Cunningham disse:
«Si suppone (così dicono, sapete) che accada nella
caserma dove gli arrivano questi enormi contadini,
zucconi, sapete, da addestrare. Il sergente li fa mettere in
fila contro il muro con i piatti in mano». Illustrò la storia
con gesti grotteschi.
«A pranzo, sapete. Poi ha una grossa pignatta di cavoli,
davanti sulla tavola e un grosso cucchiaio grande come
una pala. Tira su un malloppo di cavolo sul cucchiaio e lo
scaglia attraverso la stanza e quei poveri diavoli devono
cercare di acchiapparlo sui piatti: 65, acchiappa il
cavolo.»
Tutti risero di nuovo: ma il signor Kernan era ancora
piuttosto indignato. Parlò di scrivere una lettera ai
giornali.
«Questi bruti che vengono qui» disse «credono di potere
comandare alla gente. Non ho bisogno di dirti, Martin,
che genere d'uomini siano.»
Il signor Cunningham assentì con competenza.
«Come tutto quanto a questo mondo» disse. «Ce ne sono
di cattivi e ce ne sono di buoni.»
«Oh sì, ce ne sono di buoni, lo ammetto» disse il signor

Kernan, convinto.
«È meglio non avere niente a che fare con loro» disse il
signor M'Coy. «Secondo me!»
La signora Kernan entrò nella stanza e, mettendo un
vassoio sul tavolo, disse:
«Servitevi, signori».
Il signor Power si alzò in piedi per ufficiare, offrendole la
sua sedia. Lei la rifiutò, dicendo che stava stirando al
piano terra e, dopo avere scambiato un cenno della testa
con il signor Cunningham dietro le spalle del signor
Power, si accinse a lasciare la stanza. Il marito le gridò:
«E per me non hai niente, piccina?».
«Per te! Il rovescio della mano ho per te! » disse la
signora Kernan aspra.
Il marito le gridò dietro:
«Niente per il tuo povero maritino!».
Fece una faccia e una voce così comiche che la
distribuzione delle bottiglie di birra avvenne fra l'allegria
generale.
I signori bevvero dai bicchieri, rimisero i bicchieri sul
tavolo e fecero una pausa. Poi il signor Cunningham si
volse verso il signor Power e disse come per caso:
«Giovedì sera, hai detto, Jack?».
«Sì, giovedì» disse il signor Power.
«Benissimo! » disse subito il signor Cunningham.
«Possiamo trovarci da M'Auley» disse il signor M'Coy.
«È il posto più comodo.»
«Ma non dobbiamo fare tardi» disse il signor Power con
convinzione «perché sarà sicuramente pieno
all'inverosimile.»
«Possiamo trovarci alla sette e mezzo» disse il signor

M'Coy.
«Benissimo!» disse il signor Cunningham.
«Alle sette e mezzo da M'Auley, così sia!»
Ci fu un breve silenzio. Il signor Kernan aspettò per
vedere se gli amici si sarebbero confidati. Poi chiese:
«Che c'è nell'aria?».
«Oh, niente» disse il signor Cunningham. «È solo una
cosetta che stiamo organizzando per giovedì.»
«L'opera, eh?»
«No, no» disse il signor Cunningham in tono evasivo «è
solo una... cosetta spirituale.»
«Oh» disse il signor Kernan.
Ci fu di nuovo un silenzio. Poi il signor Power disse, di
punto in bianco:
«A dirti la verità, Tom, facciamo un ritiro».
«Sì, è così?» disse il signor Cunningham «Jack ed io e
M'Coy... andiamo tutti a lavare i panni sporchi.»
Pronunciò la metafora con una certa schietta energia e,
incoraggiato dalla propria voce, continuò:
«Vedi, tanto vale ammettere che siamo una bella
collezione di mascalzoni, tutti quanti. Dico, tutti quanti»
aggiunse con burbera carità e volgendosi al signor Power.
«Confessalo!»
«Lo confesso» disse il signor Power.
«Lo confesso anch'io» disse il signor M'Coy.
«Così andiamo a lavare i panni sporchi insieme» disse il
signor Cunningham.
Parve colpito da un pensiero. Si volse d'improvviso
all'infermo e disse:
«Sai cosa, Tom, mi è appena venuto in mente? Potresti
unirti a noi così faremmo un bel quartetto».

«Buona idea» disse il signor Power. «Tutti e quattro
insieme.»
Il signor Kernan stava zitto. La proposta gli appariva
insignificante, ma comprendendo che alcune forze
spirituali stavano per interessarsi a suo favore, pensò che
la dignità gli imponeva di mostrarsi ostinato.
Non prese parte alla conversazione per molto tempo, ma
ascoltò, con aria di calma ostilità, mentre gli amici
discutevano di gesuiti.
«Non ho una così cattiva opinione dei gesuiti» disse,
finalmente intervenendo. «È un ordine colto. Credo che
siano anche animati da buoni sentimenti.»
«E il più grande ordine della Chiesa, Tom» disse il signor
Cunningham, con entusiasmo. «Subito dopo il papa viene
il generale dei gesuiti.»
«Non ci sono dubbi» disse il signor M'Coy «se vuoi una
cosa fatta bene e con abilità, vai da un gesuita. Hanno
influenza quei ragazzi. Ho un caso da raccontarvi
infatti...»
«I gesuiti sono un gran bel sodalizio» disse il signor
Power.
«C'è un fatto curioso» disse il signor Cunningham «che
riguarda l'ordine gesuita. Tutti gli altri ordini della Chiesa
hanno dovuto essere riformati prima o poi, ma l'ordine
gesuita non è mai stato riformato. Non è mai stato
sciolto.»
«Davvero?» chiese il signor M'Coy.
«Questi sono fatti» disse il signor Cunningham. «È
storia.»
«Guarda anche la loro comunità di fedeli» disse il signor
Power.

«Guarda che congregazione hanno.»
«I gesuiti sono i fornitori delle classi alte» disse il signor
M'Coy.
«Certo» disse il signor Power.
«Sì» disse il signor Kernan. «Ecco perché mi piacciono.
Sono quegli altri preti profani, ignoranti, presuntuosi...»
«Sono tutti brav'uomini» disse il signor Cunningham
«ciascuno a modo suo. Il clero irlandese è rispettato in
tutto il mondo.»
«Oh sì» disse il signor Power.
«Non come altri cleri nel continente» disse il signor
M'Coy «indegni del nome che portano.»
«Forse hai ragione» disse il signor Kernan, addolcendosi.
«Certo che ho ragione» disse il signor Cunningham.
«Non sono stato al mondo tutto questo tempo vedendone
tanti lati senza sapere giudicare i caratteri.»
I signori bevvero di nuovo, l'uno seguendo l'esempio
dell'altro. Il signor Kernan sembrava ponderare qualcosa.
Era rimasto colpito. Aveva una grandissima stima del
signor Cunningham come giudice di caratteri e lettore di
fisionomie. Chiese informazioni.
«Oh, è solo un ritiro, sai» disse il signor Cunningham.
«Lo dà padre Purdon. È per uomini d'affari, sai.»
«Non sarà troppo severo con noi, Tom» disse il signor
Power con fare persuasivo.
«Padre Purdon? Padre Purdon?» disse 1'infermo.
«Oh, lo devi conoscere, Tom» disse il signor
Cunningham, con decisione. «Bell'uomo, allegro! È un
uomo di mondo come noi.»
«Ah... sì. Credo che lo conosco. Viso piuttosto rosso;
alto.»
«È lui.»
«E dimmi, Martin... È un buon predicatore?»
«Non so... non è esattamente una predica, sai. È solo una
specie di conversazione fra amici, sai, fatta con buon
senso.» Il signor Kernan rifletteva. Il signor M'Coy disse:
«Padre Tom Burke, lui sì era bravo! ».
«Oh, padre Tom Burke» disse il signor Cunningham «era
un oratore nato. L'hai mai sentito, Tom?»
«Se l'ho mai sentito!» disse l'infermo, punto sul vivo.
«Altro che! L'ho sentito...»
«Eppure dicono che non fosse un grande teologo» disse il
signor Cunningham.
«Davvero?» disse il signor M'Coy.
«Oh, naturalmente, niente di erroneo, sai. Solo talvolta,
dicono, nelle prediche non era proprio ortodosso.»
«Ah!... era un uomo magnifico» disse il signor M'Coy.
«L'ho sentito una volta» continuò il signor Kernan. «Ho
dimenticato il tema del suo discorso. Crofton ed io
eravamo in fondo alla... platea, sapete... la...»
«La navata» disse il signor Cunningham.
«Sì, in fondo vicino alla porta. Ho dimenticato ora cosa...
Ah sì, era sul papa, l'ultimo papa. Me ne ricordo bene.
Parola mia era splendido, lo stile oratorio. E la voce! Dio!
che voce aveva! Il prigioniero del Vaticano, lo chiamava.
Mi ricordo che Crofton quando uscimmo mi disse...»
«Ma è un orangista,4 Crofton, no?» disse il signor Power.
«Certo che lo è» disse il signor Kernan «e un buonissimo
orangista, anche. Entrammo da Butler a via Moore... vi
giuro, ero veramente commosso, è la verità, lo giuro su

Dio... e ricordo bene le sue esatte parole. Kernan, disse,
adoriamo ad altari diversi, disse, ma la nostra fede è la
stessa. Fui colpito da come era detto bene.»
«È molto interessante» disse il signor Power. «C'erano
sempre folle di protestanti nella chiesa dove predicava
padre Tom.»
«Non c'è molta differenza fra noi» disse il signor M'Coy.
«Crediamo entrambi nel...»
Esitò un istante.
«...nel Redentore. Solo che loro non credono nel papa e
nella madre di Dio.»
«Ma, naturalmente» disse il signor Cunningham calmo ed
energico «la nostra religione è la religione, l'antica,
l'autentica fede.»
«Non c'è dubbio» disse il signor Kernan con calore.
La signora Kernan venne alla porta della camera e
annunciò:
«C'è una visita per te!».
«Chi è?»
«Il signor Fogarty.»
«Oh, avanti! avanti!»
Un pallido viso ovale avanzò nella luce. L'arco dei baffi
biondi e spioventi era ripetuto nelle sopracciglia bionde
annodate sopra occhi piacevolmente stupiti. Il signor
Fogarty era un modesto droghiere. Gli affari gli erano
andati male in un bar della city perché lo stato delle sue
finanze l'aveva costretto a legarsi a distillatori di birra di
secondo ordine. Aveva aperto un negozietto a via
Glasvenin dove, si compiaceva di credere, con il suo
modo di fare si sarebbe ingraziato le massaie del
quartiere. Si comportava con una certa grazia, faceva
complimenti ai bambini e parlava con dizione chiara. Non
era privo di cultura.
Il signor Fogarty portava con sé un regalo, una mezza
pinta di whisky speciale. Si informò cortesemente sulla
salute del signor Kernan, mise il regalo sul tavolo e si
sedette con il gruppo alla pari. Il signor Kernan tanto più
apprezzò il regalo in quanto sapeva che fra lui e il signor
Fogarty c'era un conticino in sospeso per generi di
drogheria. Disse:
«Non nutrivo dubbi su di te, caro amico. Ti dispiace
aprirla, Jack?».
Il signor Power ufficiò di nuovo. I bicchieri vennero
risciacquati e furono versate cinque piccole dosi di
whisky. L'alcool ravvivò la conversazione. Il signor
Fogarty, seduto su una piccola superficie della sedia, era
particolarmente interessato.
«Papa Leone XIII» disse il signor Cunningham «è stato
uno dei fari luminosi di quest'epoca. La sua grande idea,
sapete, era l'unione delle Chiese latina e greca. Era lo
scopo della sua vita.»
«Ho sentito dire spesso che era uno degli uomini più
intellettuali d'Europa» disse il signor Power. «Voglio
dire, a parte il fatto che era papa.»
«Lo era» disse il signor Cunningham «se non era il più. Il
suo motto, sapete, come papa, era Lux su Lux... Luce su
luce.»
«No, no» disse il signor Fogarty con foga. «Credo che lei
si sbagli. Era Lux in Tenebris, credo... Luce nelle
tenebre.»
«Oh sì» disse il signor M'Coy « Tenebrae.»
«Mi permetta» disse il signor Cunningham con

convinzione «era Lux su Lux. E il motto del suo
predecessore Pio IX era Crux su Crux... Croce su croce...
a mostrare la differenza ha i loro due pontificati.»
La deduzione venne permessa. Il signor Cunningham
continuò.
«Papa Leone, sapete, era un grande studioso e un poeta.»
«Aveva un viso energico» disse il signor Kernan.
«Sì » disse il signor Cunningham. «Scriveva poesie in
latino.»
«Davvero?» disse il signor Fogarty.
Il signor M'Coy assaggiò soddisfatto il suo whisky e
scosse la testa con duplice intenzione, dicendo:
«Non è uno scherzo, ve lo posso ben dire».
«Non sono cose che abbiamo imparato, Tom» disse il
signor Power, seguendo l'esempio del signor M'Coy
«quando andavamo a quella scuola da un penny la
settimana.»
«Tanta brava gente è andata a quella scuola da un penny
la settimana con un pezzo di torba sotto il braccio» disse
il signor Kernan sentenzioso. «Il vecchio sistema era il
migliore: un insegnamento semplice e onesto. Non queste
sciocchezze moderne...»
«Giustissimo» disse il signor Power.
«Niente di superfluo» disse il signor Fogarty. Articolò la
parola e poi bevve gravemente.
«Ricordo di aver letto» disse il signor Cunningham «che
una delle poesie di papa Leone era sull'invenzione della
fotografia... in latino, naturalmente.»
«Sulla fotografia! » esclamò il signor Kernan.
«Sì» disse il signor Cunningham.
Anche lui bevve dal suo bicchiere.
«Be', sapete,» disse il signor M'Coy «quando ci si pensa
non è meravigliosa la fotografia?»
«Oh, certo» disse il signor Power «le grandi menti sanno
vedere le cose.»
«Come dice il poeta: Le grandi menti sono molto vicine
alla pazzia» disse il signor Fogarty.
Il signor Kernan sembrava avere la mente turbata. Fece
uno sforzo per ricordare la teologia protestante su certi
punti scabrosi e alla fine si rivolse al signor Cunningham.
«Dimmi, Martin» disse. «Alcuni papi non erano... certo,
non l'attuale, né il suo predecessore, ma alcuni degli
antichi papi... non esattamente... sai... proprio perfetti?»
Ci fu un silenzio. Il signor Cunningham disse:
«Oh, certo, ce ne sono stati di cattivi... Ma la cosa
stupefacente é questa. Nessuno di loro, neppure il più
grande ubriacone, né il più... assoluto farabutto, nessuno
di loro ha mai predicato ex cathedra una sola parola di
falsa dottrina. Non è stupefacente?»
«Lo è» disse il signor Kernan.
«Sì, perché quando il papa parla ex cathedra» spiegò il
signor Fogarty «è infallibile.»
«Sì» disse il signor Cunningham.
«Oh, so dell'infallibilità del papa. Ricordo che allora ero
più giovane... O era?»
Il signor Fogarty interruppe. Prese la bottiglia e ne versò
ancora un po' agli altri. Il signor M'Coy, vedendo che non
ce n'era abbastanza per tutti, addusse a scusa che non
aveva finito la sua prima dose. Gli altri accettarono
protestando. La musica lieve del whisky che cadeva nei
bicchieri creò un piacevole interludio.
«Cos'è che stavi dicendo, Tom?» chiese il signor M'Coy.

«L'infallibilità del papa» disse il signor Cunningham «è
stata la scena più grandiosa in tutta la storia della
Chiesa.»
«Come mai, Martin?» chiese il signor Power.
Il signor Cunningham alzò due grosse dita.
«Nel sacro collegio, sapete, di cardinali, arcivescovi e
vescovi ce n'erano due che si opponevano ad essa mentre
gli altri erano tutti favorevoli. L'intero conclave tranne
quei due era unanime. No! Non volevano saperne!»
«Ah!» disse il signor M'Coy.
«Ed erano un cardinale tedesco chiamato Dolling... o
Dowling... o...» «Dowling non era tedesco, questo è
sicuro» disse il signor Power, ridendo.
«Be', questo grande cardinale tedesco, comunque si
chiamasse, era uno; e l'altro era John MacHale.»
«Chi?» gridò il signor Kernan. «John di Tuam?»
«Ne è proprio sicuro?» chiese il signor Fogarty con aria
di dubbio. «Credevo fosse un italiano o un americano.»
«John di Tuam» ripeté il signor Cunningham «era lui.»
Bevve e gli altri signori lo imitarono. Poi riprese:
«Se ne stavano lì, tutti i cardinali e i vescovi e gli
arcivescovi venuti da tutte le parti della terra e questi due
si battevano come cani indemoniati finché alla fine lo
stesso papa si alzò in piedi e proclamò l'infallibilità
dogma della Chiesa ex cathedra. In quel preciso istante
John MacHale, che non aveva fatto che discutere contro,
si alzò e gridò con la voce di un leone: Credo!»
«Io credo!» disse il signor Fogarty.
«Credo!» disse il signor Cunningham. «Il che dimostra
che fede aveva. Fece atto di sottomissione nell'istante in
cui parlò il papa.»
«E Dowling cosa fece?» chiese il signor M'Coy.
«Il cardinale tedesco non volle fare atto di sottomissione.
Lasciò la Chiesa.»
Le parole del signor Cunningham avevano suscitato
l'immagine immensa della Chiesa nelle menti dei suoi
ascoltatori. La voce profonda e rauca li aveva fatti
fremere mentre pronunciava la parola di fede e di
sottomissione. Quando la signora Kernan entrò nella
stanza, asciugandosi le mani, arrivò in mezzo a una
compagnia solenne. Non disturbò il silenzio, ma si
appoggiò alla spalliera di ferro ai piedi del letto.
«Ho visto una volta John MacHale» disse il signor
Kernan «e non lo dimenticherò finché vivo.»
Si voltò verso la moglie per conferma.
«Te l'ho detto spesso?»
La signora Kernan annuì con la testa.
«È stato all'inaugurazione della statua di sir John Gray.
Edmund Dwyer Gray parlava, continuando a blaterare, e
c'era questo vecchio, un vecchio dall'aria arcigna, che lo
guardava da sotto le sopracciglia cespugliose.»
Il signor Kernan aggrottò, le sue di ciglia e, abbassando la
testa come un toro infuriato, guardò con occhio torvo la
moglie.
«Dio! » esclamò, riprendendo il suo viso normale «non
ho mai visto occhi simili nella testa di un uomo. Era
come se avesse detto: ti conosco bene, ragazzo mio.
Aveva occhi da falco.»
«Tutti i Gray erano dei poco di buono» disse il signor
Power.
Ci fu di nuovo una pausa. Il signor Power si volse alla
signora Kernan e disse con improvvisa giovialità:

«Bene, signora Kernan, faremo del suo uomo un buon
cattolico romano, santo, devoto e timorato di Dio».
Fece un gesto circolare con il braccio a comprendere il
gruppo.
«Faremo tutti insieme un ritiro e confesseremo i nostri
peccati... e Dio sa se ne abbiamo bisogno.»
«Va bene» disse il signor Kernan, sorridendo un po'
nervosamente. La signora Kernan pensò che sarebbe stato
più saggio nascondere la sua soddisfazione. Così disse:
«Compiango il povero prete che deve ascoltare le tue
storie». L'espressione del signor Kernan cambiò.
«Se non gli piace» disse seccamente «può... fare l'altra
cosa. Gli racconterò solo la mia piccola storia di sventure.
Non sono un così cattivo soggetto...»
Il signor Cunningham intervenne prontamente.
«Rinunceremo tutti al diavolo» disse «insieme, non
dimenticandone opere e pompe.»
«Vade retro, Satana!» disse il signor Fogarty, ridendo e
guardando gli altri.
Il signor Power non diceva niente. Si sentiva
completamente vinto in strategia. Ma sul viso gli guizzò
un'espressione contenta.
«Non dobbiamo fare altro» disse il signor Cunningham
«che alzarci in piedi con le candele accese in mano e
rinnovare i nostri voti battesimali.»
«Oh, non dimenticare la candela, Tom» disse il signor
M'Coy «mi raccomando.»
«Cosa?» disse il signor Kernan. «Devo avere una
candela?»
«Oh sì» disse il signor Cunningham.
«No, maledizione» disse il signor Kernan sensatamente
«c'è un limite a tutto. Questa faccenda la faccio senz'altro.
Quest'affare del ritiro e della confessione e... tutto il resto.
Ma... niente candele! No, maledizione, escluse le
candele! »
Scosse la testa con comica serietà.
«Sentitelo!» disse la moglie.
«Escluse le candele» disse il signor Kernan, consapevole
di avere fatto colpo sul suo pubblico e continuando a
scuotere la testa avanti e indietro. «Esclusa questa
faccenda della lanterna magica.»
Tutti risero di cuore.
«Che bel cattolico!» disse la moglie.
«Niente candele» ripeté il signor Kernan ostinato. «Non è
ammissibile!»
Il transetto della chiesa gesuita a via Gardiner era quasi
pieno; ma ancora continuavano a entrare signori dalla
porta laterale e, indirizzati dal converso, camminavano in
punta di piedi lungo le navate finché non trovavano un
posto a sedere. I signori erano tutti ben vestiti e in ordine.
La luce delle lampade della chiesa cadeva su un consesso
di vestiti neri e di colletti bianchi, alleviato qua e là da
tweeds, su scuri pilastri screziati di marmo verde e su
lugubri quadri. I signori sedevano nei banchi, dopo
essersi leggermente aggiustati i pantaloni sopra le
ginocchia e avere messo al sicuro i cappelli. Sedevano
bene indietro e fissavano contegnosi il puntolino lontano
di luce rossa sospeso davanti all'altare maggiore.
In uno dei banchi vicino al pulpito sedevano il signor
Cunningham e il signor Kernan. Nel banco dietro sedeva
il signor M'Coy da solo: e nel banco dietro di lui

sedevano il signor Power e il signor Fogarty. Il signor
M'Coy aveva cercato senza successo di trovare un posto
nel banco insieme con gli altri e, quando il gruppo si era
sistemato a forma di quinconce, aveva cercato senza
successo di fare commenti buffi.
Dato che non erano stati accolti bene, vi aveva rinunciato.
Persino lui era cosciente dell'atmosfera di decoro e
persino lui cominciò a essere sensibile allo stimolo
religioso. Con un bisbiglio, il signor Cunningham
richiamò l'attenzione del signor Kernan sul signor
Harford, l'usuraio, seduto a una certa distanza, e sul
signor Fanning, funzionario del registro e creatore dei
sindaci della città, seduto direttamente sotto il pulpito
accanto a uno dei neo-eletti consiglieri municipali. Sulla
destra sedeva il vecchio Michael Grimes, proprietario di
tre agenzie di prestiti su pegno, e il nipote di Dan Hogan,
candidato a un posto nell'ufficio del segretario comunale.
Più avanti sedeva il signor Hendrick, capo cronista del
Freeman's Journal, e il povero O'Carroll, vecchio amico
del signor Kernan, che un tempo era stato un'importante
figura nel mondo del commercio. A mano a mano che
riconosceva volti familiari, il signor Kernan cominciava a
sentirsi più a suo agio. Il cappello, restaurato dalla
moglie, poggiava sulle sue ginocchia. Una o due volte si
tirò giù i polsini con una mano mentre teneva
leggermente, ma fermamente, la tesa del cappello con
l'altra.
Una figura dall'aspetto imponente, la cui parte superiore
era avvolta in una cotta bianca, venne notata ascendere
con difficoltà nel pulpito. Simultaneamente la
congregazione si agitò, estrasse fazzoletti
inginocchiandovisi sopra con cura. Il signor Kernan seguì
l'esempio generale.
La figura del prete ora stava ritta nel pulpito, con due
terzi della massa, coronata da una grossa faccia rossa e
tozza, visibili al di sopra della balaustra.
Padre Purdon si inginocchiò, si volse verso il puntolino
rosso di luce e, coprendosi il viso con le mani, pregò.
Dopo un intervallo, si scoprì il viso e si alzò. Anche la
congregazione si alzò e tornò a sistemarsi sui banchi. Il
signor Kernan rimise il cappello sul ginocchio nella
posizione originale e offrì un viso attento al predicatore.
Il predicatore rimboccò con gesto ampio ed elaborato
ciascuna delle larghe maniche della cotta ed esaminò
lentamente lo schieramento di volti. Poi disse:
«Poiché i figli di questo mondo sono più scaltri verso i
loro pari dei figli della luce. Ebbene, io vi dico:
procuratevi amici con le disoneste ricchezze, affinché
quando morirete essi vi accolgano nelle eterne dimore».
Padre Purdon sviluppò il testo con sonora sicurezza. Era
uno dei passi più difficili da interpretare correttamente di
tutte le Sacre Scritture, disse. Era un passo che poteva
sembrare all'osservatore superficiale in disaccordo con
l'elevata moralità predicata altrove da Gesù Cristo. Ma,
disse ai suoi ascoltatori, il passo gli era sembrato
particolarmente adatto a guidare coloro cui era toccato in
sorte di vivere nel mondo, pure non desiderando vivere a
guisa di persone mondane. Era un testo per uomini
d'affari e professionisti. Gesù Cristo, con la Sua divina
comprensione di ogni angolo recondito della nostra
natura umana, comprendeva che non tutti gli uomini
erano chiamati alla vita religiosa, che la grandissima

maggioranza era obbligata a vivere nel mondo e, fino a
un certo limite, per il mondo: e in queste frasi Egli si era
proposto di dare loro una parola di consiglio, mettendo
loro dinanzi quali esempi della vita religiosa quegli stessi
adoratori di Mammona che erano di tutti gli uomini i
meno zelanti nelle cose della religione.
Disse ai suoi ascoltatori che era lì quella sera non allo
scopo di atterrire o di eccedere; ma come un uomo di
mondo che parlasse ai suoi simili. Era venuto a parlare a
uomini d'affari e avrebbe loro parlato da uomo d'affari. Se
gli era concesso di usare la metafora, disse, era il loro
contabile spirituale; e desiderava che tutti i suoi
ascoltatori aprissero i loro libri mastri, i libri della vita
spirituale, e vedessero se facevano esattamente riscontro
con la coscienza.
Gesù Cristo non era un padrone duro. Comprendeva le
nostre piccole mancanze, comprendeva le debolezze della
nostra povera natura corrotta, comprendeva le tentazioni
di questa vita. Potevamo avere avuto, avevamo tutti di
tanto in tanto, le nostre tentazioni: potevamo avere,
avevamo tutti, le nostre mancanze. Ma una cosa sola,
disse, avrebbe chiesto ai suoi ascoltatori. E questa era: di
comportarsi in modo onesto e virile con Dio. Se i loro
conti riscontravano perfettamente, di dire:
«Bene, ho verificato i miei conti. Trovo tutto in regola».
Ma se, come poteva accadere, c'erano alcune divergenze,
di ammettere la verità, essere franchi e dirsi da uomo:
«Bene, ho esaminato a fondo i miei conti. Trovo questo
errore e questo errore. Ma, con la grazia di Dio,
rettificherò questo e questo. Metterò in ordine i miei
conti».


















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